Articolo di Daniele Ronchi.
La fotografia come strumento di conoscenza del sè: il metodo terapeutico che è stato realizzato all’interno della casa circondariale di Rimini e in alcune scuole medie superiori
Vi sono alcune ragioni per ritenere la fotografia, insieme alle altre forme di espressione artistica già ampiamente utilizzate in contesti terapeutici o educativi, un valido strumento per approfondire la conoscenza del sè. In questo articolo tratterò di alcuni degli esercizi facenti parte di un metodo elaborato durante la mia collaborazione con l’équipe medica e psicoterapeutica della sezione SEATT (Sezione Aperta per il Trattamento Tossicodipendenti) del carcere di Rimini, ed all’interno di alcuni istituti di istruzione secondaria superiore, nella fattispecie scuole di grafica pubblicitaria.
Il metodo
L’idea nasce da un paradosso: può un sistema simbolico di rappresentazione del reale quale è la fotografia fungere da mezzo per operare su vari livelli di consapevolezza, farsi tramite per delle esperienze sull’autopercezione, sull’orientamento spaziale e temporale, sul vissuto autobiografico? La fotografia è stata usata in psicoterapia esclusivamente come strumento narrativo autobiografico, mentre in questa esperienza le immagini vengono costruite nel corso di un laboratorio con contenuti anche tecnici (l’uso della macchina fotografica) per giungere, manipolando materiali, alla reificazione di contenuti spesse volte astratti, inerenti alla psiche dell’individuo. Dall’universo simbolico alla realtà fenomenica attraverso un mezzo che per sua natura astrae contenuti simbolici dal reale. Ciò che in origine era un semplice corso di fotografia si è trasformato, all’interno della casa circondariale di Rimini, in un progetto organico dove la fotografia funge da supporto all’équipe psicoterapeutica per operare sulle tematiche del cambiamento.
Gli esercizi
Ecco ora alcuni degli esercizi proposti per approfondire e sperimentare la funzione sociale della fotografia in quanto reiterazione della memoria affettiva e sostituto oggettuale di realtà.
l) Analizzare le immagini ritraenti i membri della propria famiglia o delle persone con cui sussiste un rapporto affettivo; chiedere il confronto tra l’allora ed il presente emotivo ed affettivo, chiedere di ricostruire in sala pose la postura e l’atteggiamento mentale che si aveva nell’istante in cui è stato eseguito il ritratto.
2) Costruire una mappa dei tatuaggi, fotografarli in sala pose ricomponendoli in un collage di immagini.
3) Nelle foto di gruppo, immaginare ciascun membro come un punto di forza che attrae e respinge gli altri, modificare le dinamiche di gruppo ritraendo i partecipanti in diverse configurazioni.
Sin dal suoi albori la fotografia ha assunto la funzione sociale di reiterazione della memoria affettiva e di mantenimento della identità familiare attraverso il tramandarsi delle icone di famiglia. Il privilegio della aristocrazia e del clero, unici tenutari della possibilità di tramandare la propria immagine (imago=apparire) tramite la pittura, è crollato di fronte alla fotografia ed all’avvento della classe borghese, desiderosa di stabilire una propria identità sociale, talvolta, come in questo caso, trasponendo le usanze dei ceti elitari nei propri comportamenti di gruppo.
Foto di famiglia
Le icone dei familiari, che hanno così sostituito il culto degli avi, si posizionano in bella vista nelle nostre case oppure si ordinano in album di famiglia, sempre pronte ad essere rispolverati. Questa funzione sociale della fotografia sta alla base della gran parte della produzione di immagini; il rapporto feticistico, magico, che si instaura con queste rappresentazioni del reale, consente alle immagini di sostituirsi alla realtà stessa, incorporando nella icona tutto il potenziale rievocativo della esperienza reale. I matrimoni e tutte le cerimonie religiose in genere, che segnano la crescita dell’individuo nella cultura occidentale cristiana, vengono stigmatizzate da immagini fotografiche. I momenti felici, le vacanze, vengono parimenti congelati in istantanee, testimonianze di un determinato status sociale, sintesi del vissuto.
La rottura con il legame familiare e la ricerca di una nuova identità sociale segnano in molti casi il percorso del tossicodipendente, soprattutto quando questo venga inserito all’interno del contesto carcerario. Dimentichi del proprio bagaglio affettivo, l’icona stigmatizzante diviene il tatuaggio, marchio di appartenenza ad un nuovo gruppo, la popolazione carceraria. Questo fenomeno sta da alcuni anni travalicando l’ambito della devianza: la perdita di centralità della famiglia e la nuova percezione del proprio corpo (il secondo io) introdotta dalla tecnologia informatica sta creando una nuova rapprentazione simbolica dell’identità sociale e della percezione del corpo. Alla icona familiare (la foto nel portafogli, il crocefisso al collo simbolo di appartenenza ad una religione che pone la famiglia alla base della stuttura sociale), si sostituisce il tatuaggio; il corpo può essere cambiato tramite impianti e manipolazioni, le biotecnologie sono il futuro prossimo. Il corpo virtuale è molto più vicino al corpo eterico che a quello fisico e sotto questa spinta la percezione del sè è dilatata nel tempo e nello spazio (essere in rete, comunicare a livello globale al tempo presente, essere raggiungibili telefonicamente in ogni momento ed in ogni luogo equivale a poter essere in ogni momento ed in ogni luogo).
La tendenza attuale nella cultura giovanile di massa ad utilizzare il tatuaggio è sintomatica riguardo a ciò; la famiglia sta perdendo la sua centralità di struttura e ad essa si sostituiscono altri modelli di aggregazione: il gruppo, il clan, la tribù. Le icone stigmatizzanti divengono il tatuaggio come segno indelebile di appartenenza ad un centro di aggregazione altro dalla famiglia. La consapevolezza di questi processi in atto nella nostra cultura è fondamentale: non a caso le patologie più diffuse negli adolescenti hanno il corpo come nucleo centrale (anoressia e bulimia). La fotografia è la madre primigenia di un universo simbolico però fortemente agganciato al reale fenomenico, imprescendibile da esso. Senza la rivoluzione culturale posta in essere dalla fotografia (riproduzione ipoteticamente all’infinito di una immagine, introduzione di linee di confine invisibili tra realtà e rappresentazione fotografica) molte delle epistemologie di pensiero alla base delle nuove realtà virtuali non sarebbero esistite.
La foto di gruppo congela gerarchie del gruppo stesso, ti posiziona all’interno di un contesto strutturato e ti fornisce l’identità relazionale; difficilmente nel classico ritratto di famiglia patriarcale il nonno non posa al centro, così pure attorno al leader del gruppo gravitano gli elementi di una classe, di un gruppo terapeutico, di un gruppo giovanile dedito ai rave e all’ecstasi. Si tratta semplicemente di giocare con questi elementi creando consapevolezza, in maniera che le scelte di stile di vita, di appartenenza ad un gruppo, di ritualità inerenti ai vari gruppi sia una scelta meditata e consapevole.
Il gioco delle maschere, fotografia come conflitto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe apparire, rapporta tra realtà e sistemi di rappresentazione.
Altri esercizi
1) Interpretare liberamente se stessi in sala pose, con la macchina fotografica azionata da un timer e quindi in assenza di fotografo.
2) Stampare un ingrandimento del proprio viso e sviluppare una ulteriore seduta di sala pose dove al posto della propria faccia si utilizzerà la propria immagine o l’immagine di altri membri del gruppo.
3) Tramite l’utilizzo di oggetti di scena e o didascalie, operare dei salti di contesto o di significato, modificando il significato o l’uso di un oggetto o di una immagine.
Il ritratto è uno specchio temporalmente sfalsato di fronte al quale sorge immediata la riflessione su ciò che si era al momento dello scatto e ciò che si è (o meglio, come ci si percepisce). Autopercezione ed immagine spesse volte confliggono (soprattutto tramite la manipolazione cosciente del fotografo) ed alcuni atteggiamenti posturali, o la sintesi dell’io idealizzato dall’individuo, sono analizzabili tramite un’immagine fotografica. Il "come sono venuto" (come appaio, come emergo) nella maggior parte dei casi è il risultato del conflitto di ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere nella foto, matrice dei tanti "non sono fotogenico", "vengo male nelle foto", che testimoniano semplicemente una parziale accettazione di se stessi.
Il ritratto si pone quindi come elemento per una vasta serie di riflessioni: l’io idealizzato, la propria maschera, il tempo come dimensione che separa l’allora fotografico dal presente, e quindi il cambiamento, l’analisi della postura, l’analisi del processo fotografico e di come questo, ben lungi dal documentare, interpreti il reale secondo gli specifici del mezzo.
Le sedute di sala pose incrociate, dove da ritraenti si passa ad una fase successiva in cui si diviene ritratti, reificano l’immagine che ciascuno si fa dell’altro, ed anche talvolta le conflittualità, mentre le immagini che ciascuno produce di se stesso, di fronte alla macchina fotografica in assenza del fotografo, eliminano le tensioni nell’apparire e le costruzioni di senso operate dal fotografo. Queste sedute, battezzate "studi di libera interpretazione del sè" hanno prodotto una serie di immagini caratterizzate da una forte vivacità, freschezza e spontaneità; il crollo almeno parziale delle maschere o la loro messa in scena spontanea è raggiungibile attraverso questo semplice escamotàge.
L’incontro-scontro con la propria immagine, l’indossare e il gettare quella maschera che è la foto del proprio viso, indossare visi di altre persone, suggerisce riflessioni sulla linea di confine tra l’io individuale sociale, rileva la rigidità della propria maschera e le difficoltà nell’entrare "nei panni" (in questo caso nei visi) degli altri. L’impatto visivo nel vedere indossata la propria immagine al posto del proprio viso in una ulteriore immagine è talvolta sconcertante. Il gioco realtà-rappresentazione, amplificato in questa serie di passaggi, conduce alla consapevolezza della linea di confine spesso confusa tra realtà e sua rappresentazione, in una sintesi ove tutto il percepibile appare ciò che è, una rappresentazione soggettiva del reale. Il gioco delle didascalie opera a livello del linguaggio parlato in una ulteriore sottolineatura del rapporto tra reale e sua rappresentazione. Partendo dal progetto del tratto e modificando la didascalia, si creano altre interpretazioni, si osserva come il significato stesso della immagine cambi in funzione della didascalia, si sottolinea ulteriormente che ciò che si appare non coincide con ciò che si è.
L’ultimo esercizio indicato, il salto di contesto o di significato propone un utilizzo degli oggetti diverso dalla loro destinazione ordinaria, allo scopo di rompere le rigide maglie del rapporto con gli oggetti e del loro significato: mestoli che si trasformano in cappelli, forbici da carezzare, letti apparecchiati, saponette per colazione, lampadine avvitate ai rubinetti etc. etc. Aumentare le strategie dell’individuo è la meta ambita, spezzare il legame rigido, coattivo e ripetitivo tra le parole e le cose e sostituirlo con una percezione del reale più ricca di sfumature, densa di sfaccettature e relativa.
Alchemico alogenuro d’argento
Le tesi qui proposte sono parte di un metodo molto più vasto attualmente in via di sperimentazione: le mie ultime riflessioni concernono la istanteneità della fotografia e quindi la sua possibilità di condurre al "qui e ora", a vivere il presente. Qualunque approccio terapeutico fa di questo punto un elemento essenziale; un individuo non presente, smarrito nel dolore di un passato "difficile" proiettato nelle attese o ansie del futuro, difficilmente vive pienamente la propria esistenza. Il presente non può prescindere però dai cambiamenti in atto nella nostra società, forse si dovrebbe parlare di presente "diffuso" per comprendere la rivoluzione tecnologica in atto, ciò che le pratiche meditative legate alle filosofie orientali consentono (sospensione del pensiero coatto, percezione del rapporto di unione che lega ogni essere umano, consapevolezza della terra come un unico organismo vivente) sta divenendo consapevolezza in occidente attraverso le protesi dell’informatica, ma per ogni dilatazione occorre partire dal presente, dal proprio centro, ed il click è uno strumento formidabile di sintesi al presente di luce e spazio. L’alogenuro d’argento cattura la luce e si trasforma in argento metallico attraverso una sintesi alchemica di cui a tutt’ora non si conoscono pienamente i presupposti fisici e chimici, azzardo, per il fascino seducente della teoria, di vedere nella fotografia l’eredità dell’alchimia mediovale nel suo intento di trasformare la materia, oro dal vile metallo, simbolo dal reale, istanti di vissuto strappati alla realtà in continua trasformazione.
Nota
Il metodo "Utilizzo della fotografia come strumento terapeutico" è protetto da copyright. Per un eventuale utilizzo consultare l’autore: Daniele Ronchi, via Fabbrerie 63, Santarcangelo di Romagna, tel. 0541/627.340. Per un approfondimento si rimanda all’articolo pubblicato nell’Ottobre 1994 sulla rivista mensile "Animazione Sociale", edita dal gruppo Abele.